La percezione del dolore? E’ anche una questione di testa
Di recente una mia cara paziente affetta da lombalgia cronica è uscita dalla visita di controllo con una prescrizione di un consulto psicologico oltre alla terapia fisioterapica specifica. La sua espressione sembrava dire “ma io il mio dolore non me lo sto inventando“ ed è la stessa frase che mi riportano alcuni pazienti cronici quando provo a spiegare cosa significa la “sensibilizzazione centrale”.
Facciamo chiarezza: il dolore è un meccanismo di difesa per il nostro corpo perché ci permette di capire se e quando siamo in pericolo. Questo meccanismo può arrivare a non funzionare bene, producendo non abbastanza dolore oppure troppo.
Nel primo caso è un problema perché viene a mancare la percezione del pericolo e quindi si corre il rischio di farsi male seriamente. Nel secondo caso invece, stimoli non dolorosi possono provocare dolore, come un pizzicotto o movimenti normali.
Il dolore eccessivo è causato dai nervi del corpo quando diventano troppo sensibili e si attivano troppo facilmente.
In una fase iniziale dopo un trauma è un evento fisiologico, cioè normale. È il cervello che rilascia delle sostanze chimiche che rendono i nervi più sensibili. È un sistema di protezione, come se il cervello aiutasse a ricordare di fare maggiore attenzione con quella zona perché ci siamo appena fatti male.
Questo è un fenomeno reversibile e che passa nel giro di qualche settimana. Potrebbe succedere però che questo si prolunghi più a lungo nel tempo, arrivando a modificare proprio la percezione del dolore. In letteratura questo viene chiamato “sensibilizzazione centrale” e viene spiegato come un sistema di allarme domestico settato male e che suona per allarmi inutili. Come abbiamo visto, può succedere che dalla periferia vengano dati segnali dolorosi quando non lo sono o che sia invece a livello centrale un errore di trasmissione. In altre parole che sia il cervello a modulare in modo errato quanto dolore si percepisce.
Ormai è risaputo che stress, disturbi del sonno, depressione influenzano in modo negativo la guarigione e favoriscono la cronicizzazione. Per questo motivo nei pazienti cronici è importante andare ad indagare anche tutti gli aspetti psicologici che entrano in gioco. Inoltre, dai dati presenti in letteratura emerge che anche gli antidolorifici più potenti attualmente sul mercato non riducono il dolore di più del 30-40% in non più del 50% dei pazienti.
Il solo approccio farmacologico può non essere sufficiente nella terapia del dolore cronico, ma si rende necessario servirsi anche di approcci psicologici complementari in grado di aiutare i pazienti a gestire il dolore in maniera più adattiva e a comprendere come la relazione che una persona ha con il proprio dolore influenzi l’intensità del dolore stesso e le limitazioni correlate al dolore.Il cervello ha un ruolo chiave nella percezione del dolore ed è solo il risultato di una sua rielaborazione.
Oltre ad una componente percettiva, infatti, esiste anche una componente esperienziale del dolore che è del tutto personale e soggettiva; entrano in gioco fattori emotivi, cognitivi e socio-culturali che influenzano l’esperienza che facciamo del dolore. Ad esempio, se pestiamo un chiodo, il cervello lo registra come dolore, ma se pestiamo lo stesso chiodo mentre scappiamo da un leone, molto probabilmente il nostro cervello neanche lo registra.
Per molti pazienti è importante capire qual è la causa reale del proprio mal di schiena, anche se nella maggior parte dei casi è difficile definire se è l’osso, se è l’articolazione, se sono i muscoli o se sono i nervi. Tante volte è una zona che lavora male e che va rieducata al carico; la spiegazione di come anche il cervello gioca un ruolo determinante è davvero difficile da accettare o da capire. Non significa che il paziente si sta inventando il dolore, ma che ci sono meccanismi molto più complessi che entrano in gioco, che vanno conosciuti e rielaborati se si vuole gestire il proprio mal di schiena.
Ad oggi tutta la letteratura scientifica è concorde nel dire che il paziente non è il referto di una radiografia o di una risonanza magnetica; avere un’ernia discale non significa nulla se non viene correlata alla clinica e ai sintomi dei pazienti. Bisognerebbe smetterla di dire ai pazienti “che brutta schiena che ha signora”, oppure “sembra la schiena di un novantenne”, perché questi messaggi negativi non fanno altro che alimentare un circolo vizioso da cui è difficile uscirne. Avere l’idea di avere un corpo rotto, fragile e irreparabilmente danneggiato non fa altro che rendere il dolore ancora più persistente e crea dei condizionamenti di vita, come delle limitazioni nei movimenti o nell’attività fisica.
Aspetti anche questi che aiutano a cronicizzare il dolore del nostro paziente.
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Il 20/12/2020 alle 12:44
Sono una donna di 46 anni con una scoliosi asintomatica fino a circa 4 anni fa. Quando sono iniziati i sintomi mi sono rivolta ad un primario di un noto istituto ortopedico italiano. Quel primario mi ha trattata nel modo peggiore che avrebbe potuto fare: “lei ha una schiena rovinata! fino ad ora cosa ha fatto, ha perso tempo, si metta in testa che tra 10 anni si dovrà operare e da sola non riuscirà a lavarsi nemmeno le parti intime”. Io sono uscita dallo studio del primario profondamente segnata, con il terrore di fare movimenti che prima facevo senza problemi, col terrore di peggiorare e sottopormi all’intervento”. La mia psiche è cambiata e i dolori aumentati. Racconto ciò perchè condivido pienamente il contenuto dell’articolo di cui sopra e fate bene a considerare questo aspetto pscicologico che viene trascurato. Attualmente faccio esercizi di potenziamento muscolare ma senza grandi benefici. Il vostro metodo , premiato anche nel 2008, potrebbe giovarmi, sebbene abbia 46 anni?
Ho dimenticato di riferire che alcuni ortopedici hanno misurato una scoliosi di venti gradi, altri sulla stessa radiografia hanno parlato di circa trenta! Attendo, cortesemente, un vostro riscontro. Grazie Buon lavoro.Grazie