“Elementare, Watson…”
Durante alcuni di questi afosi pomeriggi di agosto ho avuto modo di consolidare una consapevolezza ben strutturata ma che a volte, per pigrizia mentale, faccio fatica a tenere sempre bene a mente.
E come Watson nei confronti di Holmes non riesco sempre ad allineare quello che per il suo flemmatico compagno è assolutamente chiaro.
La questione è quella delle “prove”.
E’ strano, almeno per me, riuscire a capire definitivamente che ci sono almeno due comparti, ben divisi nella nostra mente, in cui questo concetto astratto viene gestito. In uno, la “prova” è un elemento cruciale, una specie di pilastro fondamentale a cui, a seconda dei casi, i singoli individui o la società si affidano senza remore.
Si comincia da piccoli, quando un padre roso dal sospetto chiede il test genetico, per essere sicuro che il figlio sia suo.
Si continua poco dopo con l’eternità delle “prove” che la scuola elargisce per verificare che gli allievi raggiungano gli standard adeguati all’avanzamento del percorso formativo.
Cominciano poi le “prove” a cui devi sottostare quando cominci un’attività lavorativa e devi convincere il capo di aver fatto la scelta giusta.
E nel frattempo ci sono un’enormità di altre situazioni in cui sei costretto a confrontarti con questo problema: ci sono “prove d’amore” che dovrai affrontare o che chiederai, per assicurare o essere rassicurato che il tuo cuore batte i sintonia con un altro, “prove di coraggio” a cui dovrai sottostare con spavalderia o con malcelata insicurezza per dimostrare qualcosa che non è proprio lampante. E “prove di sforzo” e “prove di controllo della pressione” e “prove di test di gravidanza” per dormire tranquillo. Senza lasciare in secondo piano tutte le “prove” che chiederai all’idraulico, all’elettricista, al meccanico per essere sicuro che ti abbiano fatto un buon lavoro.
Non mi azzardo, infine, ad accennare alle famigerate “prove” che sono il fondamento di tutta l’incastellatura giudiziaria.
Perché tutta questa pletora di prove?
Credo, perché siamo sospettosi di natura, noi individui e le società civili che abbiamo creato, (civili ma malfidate per principio) perché vogliamo assicurarci di tante cose di cui non siamo sicuri e non rinunciamo, per questo, a dimostrazioni chiare e incontrovertibili.
Esiste poi l’altro comparto, quello che non necessita di prove perché le questioni di merito non abbisognano di dimostrazioni. Parliamo di tutto quello che è connesso alla fede, cioè alla certezza incontestabile.
Parliamo di religione, cioè, di qualcosa che non è neanche lontanamente sfiorato e sfiorabile dalla non incrollabile certezza.
Lavorando in ambito sanitario da tanti anni mi sono curiosamente accorto che questi due comparti, in questo particolare mondo, sono vivi e vegeti.
Ce n’è uno, che imperava, quello delle certezze, che qualche decennio fa ha prima fortemente barcollato e poi è fragorosamente crollato sotto i colpi d’ariete di un nuovo modello di pensiero che si è velocemente impossessato di questo ambito.
Il mondo sanitario si è, nel giro di pochissimo tempo, trasfigurato.
Dalle certezze granitiche che erano tramandate dai senatori del sapere si è passato alla straordinaria messa in questione di tutto. E’ apparso, come un sogno per qualcuno e come un incubo per altri, la “medicina basata sulle evidenze” cioè la necessità di dover dimostrare quello che si fa.
E’ stato come uno tsunami, non nel senso distruttivo, ma nel senso che ha toccato tutti. I medici i chirurghi e i riabilitatori, e come uno tsunami gigantesco si è propagato in tutte le terre abitate del mondo.
Ma come succede invariabilmente quando si verificano eventi globali ci sono sempre sacche di renitenza. Che si tratti di qualcosa di negativo o di qualcosa di migliorativo ci sarà sempre chi non accetterà. Lo si è sperimentato con le eroiche resistenza armate in casi di invasioni, ma anche con la pervicace chiusura alle nascenti idee illuministiche.
In sanità è successo più o meno così. Quando si è arrivati a convincersi che quello che si praticava doveva essere sperimentato per definire che era giusto oppure no, qualcuno non l’ha accettato.
Il problema è che non parliamo degli albori di questa rivoluzione, parliamo di adesso. Cioè di una minoranza di operatori che appena sentono le parole “evidenza” o “prove” vengono colpiti da “sacri” attacchi di lesa “cultura” (termine che curiosamente è correlato all’etimologia relativa alla “conoscenza” ma anche al “culto”), conditi da sentimenti di offesa perché qualcuno osa mettere in dubbio il credo a cui sono votati.
Posso mettere tranquillamente la mano sul fuoco affermando che non ho mai sospettato che alla base di questa intoccabile insofferenza ci sia la malafede o il desiderio di nascondere qualcosa.
Penso solo che nel nostro indescrivibile cervello il mistico comparto che ha sempre alloggiato solo l’insondabile mistero del divino o del soprannaturale alcune volte si lasci permeare anche dalle idee di qualche carismatico maestro che inventa un “metodo” che non necessita di nessuna prova.
Commenti
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Il 16/10/2013 alle 22:05
Gent.mo Dr. Romano,
leggendo questo suo bellissimo post, così incisivo, chiaro, “ragionato”, non ho potuto fare a meno di pensare che sì, forse l’ostacolo maggiore al progresso scientifico è proprio la “pigrizia mentale”, l’adagiarsi su convinzioni radicate, più o meno basate sull'”esperienza” piuttosto che sull'”evidenza”, nella certezza adamantina che ciò che ciascuno pensa, crede, propone, sia la “Verità” assoluta. Dico questo da medico, madre di due ragazze affette da scoliosi, la più grande seguita presso ISICO ormai da due anni e trattata con corsetto ed esercizi (peraltro con buoni risultati!). Non è stato facile per me affrontare la patologia di mia figlia, con una scoliosi di 33° alla diagnosi. Ho consultato “esperti” del settore (io mi occupo di malattie infettive, per me la patologia vertebrale era un campo sconosciuto!), tra cui un importante chirurgo vertebrale, che ovviamente, in quanto “chirurgo”, ha proposto subito l’intervento, sostenendo, con invidiabile certezza, che “i busti non servono a niente!”
Recentemente, dovendo rifare il busto a mia figlia per la quarta volta (crescono in fretta i ragazzi!) ho chiesto ad un collega ortopedico la prescrizione per il rimborso ASL. La prescrizione l’ho avuta (…non si rifiuta un favore ad una collega!), ma accompagnata da una valanga di commenti colmi di supponenza e rivelatori di profonda ignoranza: “ma quanti anni ha tua figlia? 15? E ancora le metti il busto?? E lo porta da due anni!! Ma ti rendi conto che le hai rovinato l’adolescenza? IO ho lavorato nel settore per anni, sapessi quanti gessi IO ho fatto, quanti corsetti IO ho prescritto, e non servono a niente!!” E per finire, lapidario: “Se fosse MIA figlia non la sottoporrei mai a questa tortura!”
Io, fortunatamente, sono una persona equilibrata, ho fatto la scelta di affidarmi a professionisti seri, dopo essermi attentamente documentata, e perciò sono ben salda nella mia decisione, certa di aver offerto a mia figlia quanto di meglio la scienza medica offra oggi, evitandole i rischi di un intervento. Ma mi domando, quanto danno facciamo NOI medici, quando sputiamo sentenze, convinti di essere i depositari della “Verità”, trincerati dietro le nostre piccole certezze, per la paura di dover cambiare prospettiva, per la pigrizia di non aggiornarci, per il timore di dover “dimostrare” ciò che diciamo, anziché nasconderci dietro il dito del “è così perché lo dico IO!”
Mi perdoni il lungo sfogo, ma vivendo la realtà medica dall’interno, e da oltre vent’anni ormai, mi rendo conto sempre di più che quelle “sacche di renitenza” di cui lei parla, costituite da coloro che considerano un reato di “lesa maestà” il mettere in dubbio le loro monolitiche convinzioni, sono tutt’altro che marginali!
Un cordiale saluto e buon lavoro!
Stefania